L'angolo dello scrittore

Pochi ‘eletti’ narcisi non bastano a sconfiggere il cinismo del Grande Inquisitore

“L’umiltà del male” è un penetrante pamphlet che usa più chiavi filosofico-letterarie per riflettere sulle perduranti, nient’affatto scomparse distinzioni etiche e politiche tra destra e sinistra. Se la prima reputa gli uomini fanciulli irresponsabili, quindi dipendenti da un potere ad essi esterno, la seconda si batte per creare degli uomini adulti, cioè responsabili, quindi liberi. A tal fine non è sufficiente, però, esibire la propria superiorità morale, ma occorre anche capire ed accogliere la legittimità dei bisogni umani a cui dà risposta la politica reazionaria.

di Alberto Scarponi_

 

Palesemente oggi viviamo un disagio. Disagio che ha molti perché, di cui non sempre ci piace tener conto, tanto siamo incalzati dall’urgenza interna di protestare contro di esso e, pure, dalle molte e molteplici urgenze esterne di una realtà che, invece di darci saldi agganci, ci sfugge. È che in tempi di crisi succede così. Quando, più che urlare indignati per e nella confusione, sarebbe opportuno piuttosto fermarsi a riflettere.

Su cosa? Mah, magari su qualche parola che non significa più oppure su qualche realtà per la quale ci manca la parola per dirla. A pensarci, potrebbe essere un buon inizio per risolvere questo o quel problema. Ma riflettere è sempre stato ufficio degli intellettuali, di quelli dediti alla conoscenza diretta delle cose (gli scienziati) e di quelli che si studiano invece precisamente di conoscere la conoscenza effettiva, cioè i filosofi, gli scrittori, ovvero gli intellettuali propriamente detti che vanno domandandosi che cosa conosciamo e che cosa no e perché e quale coscienza abbiamo del conosciuto e dell’ignoto.

Oggi però gli intellettuali, in specie quelli propriamente detti, non godono di gran credito sulla piazza. Se, nel tempo del fare, del fare economico e del fare politico, persino gli scienziati ci paiono spesso fantasiosi perditempo, quegli altri, gli intellettuali del secondo tipo, risultano, diciamolo, parolai sempre e basta. Meglio sostituirli con fattivi professionisti all’uopo addetti, tanto meglio se creativi, paroliberi come per esempio, per stare al concreto del fare, i migliori pubblicitari (che hanno sempre un tigre nel loro motore, qualunque cosa ciò voglia dire) oppure, passando dal fare economico al fare politico, i geniali creatori di slogan fortemente motivanti sugli interessi di massa (anche qui, ovviamente, qualunque cosa ciò voglia dire).

A fare comunque gli intellettuali, si potrebbe dire che questo diffuso creazionismo linguistico risponda in realtà a una necessità di massa. La gente abbisogna di parole nuove per far luce nel massiccio buio che ne circonda. Ecco perché di quando in quando accade che anche qualche proposta conoscitiva, se tradotta in titoli azzeccati, susciti interesse di massa. Merito dei titoli, si dirà. Epperò, qualche volta a produrre rumore sono le idee, se le idee incontrano i bisogni.

È quanto accade con l’ultimo libro di Franco Cassano, L’umiltà del male (Laterza, Bari 2011, pp. 94, € 14,00). Ed era già accaduto, anche se meno rumorosamente, una quindicina di anni fa con un altro suo titolo: Il pensiero meridiano (Laterza, 1996). Allora colpì la scioltezza con cui Cassano vi metteva in campo un modo di affrontare il mondo assai più consono al bisogno attuale di conoscerne i dati nuovi e di produrre il conseguente nuovo in politica: nel pensare meridiano il sapere non si contentava più di un qualsiasi pensiero definitivo, classico, il potere non si impiantava più immobile, pago di sé. Allegoria ne era la figura di Ulisse, che andava e tornava per mari e per terre attraverso frontiere e rive tutte da praticare desiderando una propria casa. La visione proveniva, contro la chiusa e accentrata terra di Heidegger, dall’aperto ed estroverso mare di Nietzsche. Le differenze e le radici qui non producevano culture subalterne armate di povero integralismo, mitiche province mitizzanti lo sviluppo potente e vuoto del mercato e del suo disperato homo currens.

Quel pensiero proponeva la calda luce del meriggio come più adatta al tempo nostro, accennava però anche a un blanda, non superiorità, ma forza orientativa del Mezzogiorno e del suo mare, un mare letteralmente mediterraneo, che separava terre senza eternare distanze, una zona di mezzo che si mostrava disponibile all’uomo, il quale era indotto a interpretarla come tramite, non come barriera. E forse fu questo, in qualche modo deterministico, localizzarsi della proposta teorica in un punto geografico a delimitarne l’accoglienza, ad attenuarne nella recezione la portata.

Ora con L’umiltà del male sembra invece percepirsi una generalizzata attenzione da parte dei lettori verso l’esplicito, più risoluto intento del libro: indicare il perno attorno a cui si è andata avvitando la nostra vicenda politica, ma in realtà antropologica, oggi. Lungo il «passaggio che stiamo vivendo», infatti, «il male, nella sua lunga sfida contro il bene», sembra avere un margine di vantaggio incolmabile, l’umiltà appunto, cioè la sua «antica confidenza con la fragilità dell’uomo», «la sua capacità di coltivare ed esaltare la debolezza» di questo fanciullo, il quale, pur destinato a dover essere un individuo adulto, è mosso invece dalla limitatezza delle proprie forze di individuo e dalla caducità della condizione umana in generale ad essere e rimanere un minorenne.

Lasciando da parte le ascendenze culturali di tale impianto analitico, qui si coglie con forte evidenza, – per il voluto uso di argomenti teorici che acquisiscono anch’essi già subito il pregio dell’umiltà, della comprensione non intellettualistica del reale, – si coglie lo spessore non cronachistico da Franco Cassano introdotto nel suo discorso sul presente.

Infatti porterebbe a poco, per esempio, invischiarsi a elaborare distinguo dall’elegante profumo seicentesco per stabilire sulla pagina quanto c’è o non c’è di moralistico nella critica da sinistra alla ‘degenerazione’ politica del paese nostro poveraccio o della società contemporanea, oramai tutta americana, verso lo star system (con il suo libertinismo che sarebbe libertà o la sua libertà che sarebbe solo libertinismo, e poi con il suo gossip, la sua privacy violata, o esibita a far immagine, i suoi leaders, a volte rock a volte pop, in ogni caso non si sa se di bands o di cricche o soltanto da tv, per la durata d’una sera o d’un evento o d’una tendenza, come apprenderemo poi da miracolosi sondaggi onniscienti), mentre diventa socialmente assai produttivo sapere se un’idea, un lavoro, una decisione politica comporti la presenza di uomini adulti e indipendenti, implichi lo sviluppo di libere personalità.     

Toglie qualcosa forse all’impatto culturale immediato di questo discorso il corto circuito etico che scatta dalla dostoevskijana Leggenda del Grande Inquisitore usata da Cassano quasi a definire proprio in quei temini il ruolo del potere istituzionale nella storia del genere umano (ruolo positivo sarà la tesi di Arnold Gehlen contro Theodor W. Adorno, il quale invece denunciava la attuale «società amministrata» come ostile alla libertà degli individui, un dibattito per l’appunto analizzato anche nel libro da Cassano per correggere quella impressione).

Tenere invece quel racconto per quello che è, per una metafora letteraria del problematizzarsi della libertà nel momento in cui il Moderno, in Europa, andava configurandola come libertà di tutti, non soltanto di una élite ma degli individui della massa in crescita esponenziale, fino a divenire planetaria, illumina a fondo – come sempre fa, secondo la sua funzione, la grande letteratura – il nostro panorama culturale, prima ancora che politico. Mentre farsi trascinare dalla potenza dell’immagine costruita da Dostoevskij, l’immagine di un Uomo che osa discutere con Dio, e perciò dare il nome di ‘male’ al potere (per sua natura di destra, perché ovviamente auto conservatore, magari sotto la forma delle gramsciane rivoluzioni passive, attuate talora, con la furbizia per nulla grandiosa dei gattopardi, in un assunto sbrigativo: cambiare tutto per conservare l’essenziale) significa elargire alla destra una nobiltà e un fascino improbabili.

La destra ha più spesso il piglio taccagno e il calcolo ottuso del potere che si sente arbitrario ma si pretende giusto, potere, sia sociale (economico) che politico, proprio per tale base incerta maniaco della sicurezza, della chiusura, della difesa di un esistente minacciato dall’esterno e dal futuro. Solo di rado la destra s’innalza a prospettive generali: alla legalità come valore civile (che però essa tende a interpretare o almeno a lasciar interpretare come Giustizia), alla cultura come tradizione comune del paese (che però essa tende a interpretare o a lasciar interpretare come usi e costumi strapaesani, pigre abitudini sentimentali, populismo antimodernista).

Insomma non si sa quanto sia irrealistica la voga ormai consolidata di alleggerire il peso specifico delle nozioni di destra e sinistra. Voga cui d’altronde quest’ultima, cieca, coopera  efficacemente, tramutando la propria tradizione critica in sofistica del peggio, l’analisi delle cose complesse in cavillosità burocratica, la lotta in gesto, in frase, in utopia, la difesa della conquista in convalida dell’esistente.

Si può certo scherzare giocando sulle appartenenze (il minestrone, la doccia, i film pallosi, il papa sarebbero di sinistra, mentre la minestra, la vasca da bagno, il cinema, il diavolo sarebbero di destra) e credere di uscire, con tali mezzi, fuori da una situazione divenuta irreale, di aprirsi la strada verso la concretezza delle cose e la cultura della realtà. Ma a tal fine è davvero meglio accogliere la sobria puntualizzazione del libro di Franco Cassano: di destra è la politica di chi vuole gli uomini fanciulli irresponsabili, quindi dipendenti da un potere ad essi esterno; di sinistra è la politica di chi vuole gli uomini adulti, cioè responsabili, quindi liberi.

Oggi queste linee politiche si basano rispettivamente su due idee antropologiche contrapposte. Per la destra l’uomo di fatto non supera mai del tutto il bisogno di dipendenza caratteristico dell’infanzia. L’individuo ha bisogno quindi di venir sempre governato da figure (istituzionali o personali) che ripetano il fantasma del padre, forme o persone da cui si senta guidato con indulgenza o severità verso il giusto. Per la sinistra all’opposto l’uomo è un essere in costante evoluzione (sia come individuo che come specie) ed è destinato inevitabilmente a divenire adulto, viene quindi chiamato dalla vita ad assumersi la responsabilità di se stesso e dunque a vivere in libertà, una libertà regolata dalla forza delle cose reali e dalla responsabile convivenza con tutti gli altri uomini, altrettanto liberi.

Tale scarto (un bisogno contro un destino) viene elaborato da Cassano, nei suoi problemi ed effetti, per il tramite di tre testi, due letterari: il romanzo I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij, al cui interno si trova come detto La leggenda del Grande Inquisitore, e la descrizione del rapporto puro tra potere cinico e sudditi, nel «paradigma esemplare» del lager nazista, fornita da Primo Levi con il saggio intitolato I sommersi e i salvati; il terzo testo è filosofico e si tratta di un dialogo (radiofonico, poi pubblicato a stampa) fra Theodor W. Adorno e Arnold Gehlen sulla sociologia, ma in sostanza sul rapporto dell’uomo con il potere istituzionale.

La caratteristica e la forza di questa scelta è che per illuminare una questione prettamente politica vengano usati strumenti solo culturali, tratti dal campo di lavoro di quegli intellettuali che oggi, soprattutto in politica, nel fare politico, ricevono invece scarsissimo credito: la letteratura, la saggistica, la riflessione filosofica. Infatti, nell’odierna egemonia dei valori economici, la letteratura la si vorrebbe trasformata in mero specialistico raccontare storie, la saggistica in instant books di denuncia e di scandalo e di gossip. Quanto alla filosofia – allo stesso modo in cui si era almanaccato per la storia – si fa come fosse ‘finita’, travolta dall’incalzare del presente appunto tutto economico.

In ogni caso le tre vie conducono Franco Cassano a descrivere la società umana come una situazione complessa «nella quale si incrociano dimensioni contraddittorie, il cinismo di chi strumentalizza la debolezza degli uomini, ma anche la boria morale dei migliori, un sospetto amore per gli uomini e la feroce presunzione di poterli sottomettere ad ogni arbitrio» (p. 22). Nella Leggenda il Grande Inquisitore dice a Cristo: «Tu sei orgoglioso dei Tuoi eletti, ma con Te ci sono solo gli eletti», «dodicimila per ogni generazione», «mentre noi diamo pace a tutti». Per ottenere questo il potere della destra dà agli uomini quello che, secondo la sua antropologia spietata, essi vogliono: «il miracolo, il mistero e l’autorità», perché «sono deboli», «e loro ci vorranno bene come bambini, per il fatto che noi permetteremo loro di peccare. Noi diremo che ogni peccato sarà rimesso, se compiuto con il permesso nostro». Gli uomini «non potranno mai essere liberi» e responsabili.

Il «paradigma esemplare» dell’esercizio di questo potere cinico è dato dal lager, con la sua selezione invertita che sommerge gli uomini di valore e salva – secondo le parole di Primo Levi – «i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della ‘zona grigia’, le spie». La realtà che ne deriva è che ciascuno diviene «il Caino di suo fratello» e tutti sono «mille monadi sigillate» in «lotta disperata, nascosta e continua». È la produzione di odio a mezzo di odio sul terreno costituito dagli uomini medi della ‘zona grigia’, gli individui banali che non sono né santi né demoni (Hanna Arendt indicherà così, «banalità del male», il loro comportamento) e che giustificano appieno il giudizio di Thomas Mann (ricordato in proposito da Primo Levi) secondo cui l’uomo «è una creatura confusa», la cui confusione cresce  con il crescere delle tensioni in cui vive. 

La società di cui il lager è paradigma è, a questo punto, un prodotto del potere cinico o è la società umana in quanto tale? È il potere cinico che lavora a che la sua antropologia negativa si autoavveri in una enorme zona grigia di impotenti da dominare oppure la funzionalità stessa della vita associata richiede la presenza di istituzioni di potere che educhino i singoli e liliberino dal fardello di responsabilità troppo pesanti per essi, dal dovere di riflettere e decidere su tutte le questioni della propria vita?

Su tale tema conclusivo, e cruciale per la giustificazione teorica della tradizione stessa della sinistra, Franco Cassano prende a chiarimento le tesi contrapposte dell’antropologo Arnold Gehlen e del sociologo e filosofo Theodor W. Adorno.

Il primo, pur in una visione evolutiva della natura umana, vede il mutamento di questa a livello di individui sempre guidato e predisposto dalle istituzioni, senza di che l’uomo medio non sarebbe in grado di farsi «carico della problematica dei princìpi di fondo, del dispendio di riflessione, degli errori di vita», insomma del lavoro mentale e psicologico e sociale necessario per tentare di rendersi autonomo, secondo l’idea illuministica di far diventare l’uomo maggiorenne. Ogni tentennare delle istituzioni ha come effetto uno scombinarsi dei comportamenti soggettivi che porta crisi nella coesione sociale.

Il secondo al contrario pensa che la sostanza della storia umana stia tutta nella «emancipazione» degli individui dal potere ad essi esterno e che la linea di Gehlen sia in qualche modo definibile come una psicoanalitica «identificazione con l’aggressore», soprattutto entro uno stato di cose come quello odierno in cui l’industria culturale (vale a dire il fenomeno che noi potremmo chiamare egemonia della sfera economica su quella culturale e ormai anche su quella politica) ha di mira precisamente la demolizione dell’autonomia (quale che ne sia il grado nei casi singoli) degli individui. Così l’apoteosi del presente rispetto al passato e al futuro, che l’egemonia dell’economico comporta quale suo specifico spazio di vita, va combattuta in ogni modo, anche quando mostra il volto dell’armistizio. Scrive Adorno all’inizio dei Minima moralia: «Conviene diffidare di tutto ciò che è leggero e spensierato, di tutto ciò che si lascia andare e implica indulgenza verso la strapotenza dell’esistente».

Se questa posizione di Adorno – fatta propria da Cassano (però aggiungendovisignificativamente un cenno di richiamo all’importanza delle marxiane questioni strutturali dell’economia, sebbene non rientrassero propriamente nell’orizzonte tematico del libro) – conduce a dare al problema strategico della sinistra una soluzione a forti tratti culturali, nel senso che soltanto con un grande investimento nella ‘cultura dell’individuo’ maggiorenne, emancipato, libero la zona grigia può essere indotta all’autocoscienza soggettiva (individuale e comune) e quindi all’intervento politico, il quadro finale dello stato di cose presente – in cui il potere alla funzione-base dell’industria culturale connette una forma politica appropriata (povera di contenuto conoscitivo specifico, ma ricca di forza organizzativa) quella del populismo mediatico – riporta il discorso sul terreno appunto politico e propriamente istituzionale.

Qui – dove la formula del populismo delimita la zona di responsabilità del singolo cittadino alla propria cerchia privata, mentre le grandi questioni pubbliche vengono affidate alla ‘competenza’ di leader a ciò delegati, un po’ dal destino, un po’ dalla propria abilità mediatica, un po’ dalla fiducia personale dei governati – l’asse strutturante della sinistra, vale a dire l’emancipazione dell’individuo, quale che sia il livello di elaborazione dei suoi contenuti teorici, plasma in ogni caso politicamente l’uso dei media in senso inverso a quello populistico (che nella informazione procede dall’alto in basso), purché però vada nutrendosi per così dire di cultura applicata, non astratta. Laddove la comunicazione mediatica diviene allora, un campo di lotta fra manipolazione da parte del potere, economico e politico, da un lato, e libertà degli individui dall’altro, una libertà che a sua volta vuole  essere istituzionalmente fissata.

La prospettiva di contrapposizione alla destra si amplia. Vero infatti che il consumo, la frequentazione del supermercato contiene già di per sé «i sostituti economici e simbolici dei vecchi dispositivi di comando del Grande Inquisitore (miracolo, mistero, autorità), prodotti dal capitalismo dei consumi (merci, edonismo, evasione)… ma, se non si vuole che i dodicimila santi rimangano isolati, quei sostituti vanno esplorati lasciando all’ingresso ogni supponenza teorica», scrive Franco Cassano. Aggiungendo: «Bisogna provare a scoprire gli aneliti di libertà che l’evasione porta dentro di sé… Da questo punto di vista la nozione di “rivoluzione passiva” può, sottraendosi a una scolastica che la soffocherebbe, giocare un ruolo decisivo proprio perché invita a vedere nell’egemonia altrui in primo luogo lo specchio dei limiti della propria azione e del proprio pensiero» (p. 78).

Qui terminerebbe il pamphlet sulle abilità della destra e sulle possibilità della sinistra. Cassano ha voluto però aggiungervi un ‘epilogo’ etico consonante con la tonalità annunciata dal titolo. E questo perché, al di là dei rilanci strategici della sinistra concepibili sulla base della proposta teorica descritta, «senza una radicale mobilitazione etica… la politica muore», in pratica, aggiungiamo noi, sotto il tallone dell’economia, cosicché la zona grigia continuerà a fornire la maggioranza a una destra che le chiede semplicemente di schierarsi dalla propria parte, senza pretendere nessuna tensione morale, anzi assecondando quei bisogni che riproducono la dipendenza degli individui dal potere. È probabile che in una società di massa come quella contemporanea il bisogno di politica sia più strutturale, e meno subordinato a una scelta etica, di quanto non paia a prima vista, ma in ogni caso tale linea di pensiero permette a Cassano di ribadire utilmente, per quanto concerne la sinistra, che l’obiettivo critico del ragionamento condotto nel pamphlet «è il narcisismo etico, quell’atteggiamento che, affetto da un sentimento di superiorità morale, finisce per lasciare la debolezza degli uomini nelle mani del nemico». E prende in proposito una bella citazione da Simone Weil: «Il grande errore dei marxisti e di tutto il xix secolo è stato di credere che procedendo dritti davanti a sé, si salisse in aria».

Il punto è che per competere con i Grandi Inquisitori non basta criticare le risposte che essi dànno ai bisogni degli uomini, ma occorre anche accogliere la legittimità di tali bisogni, e forse questa mossa viene meglio se l’analisi politica è accompagnata da una buona scelta etica. Infatti connettere politicamente l’infelicità delle persone con il primato del profitto, come sosteneva Adorno, significa possedere il senso dell’infelicità altrui. Ma questo implica a sua volta che, accanto all’idea di individuo maggiorenne, sia all’opera anche un altro valore, quello della solidarietà, più ancora, della fraternità fra umani. E dovrà trattarsi di un valore, appunto, non di un banale sentimento.

E – se è ammesso un codicillo apparentemente, ma solo apparentemente, estemporaneo – questo senso dell’altro, delle ragioni degli altri, porta con sé, sul piano politico stretto, che la proposta della sinistra, elaborata da «uomini verticali», secondo l’impegnativa formula usata da Franco Cassano, non può restare limitata alla rivendicazione politica di parte, deve farsi capacità di governo per tutti, capacità di comprendere le domande anche altrui e di elaborare risposte non affidate, neppure in questo caso, al mistero, al miracolo, all’autorità.